Lettera a San Giuseppe di Don Tonino Bello
Caro San Giuseppe,
scusami se approfitto della tua ospitalità e mi fermo per una mezz’oretta nella
tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te.
Non voglio farti perdere tempo. Vedo che ne hai così poco, e la
mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a piallare il tuo
legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che
profumano di resine, ti affido le mie confidenze.
Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto che sei
l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi come le notti
d’Oriente, all’eloquenza dei gesti più che a quella delle parole. Vedi,
un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo
feriale degli umili, vi si parlava di tutto, di affari, di donne, di
amori, delle stagioni, della vita, della morte. Le cronache di paese
trovavano lì la loro versione ufficiale, e i redattori dell’innocuo
pettegolezzo quotidiano affidavano alle rapidissime rotative degli
avventori la diffusione delle ultime notizie.
Il tempo passava così lento, che gli intervalli scanditi ogni
quarto d’ora dalla torre campanaria sembravano un’eternità, ma forse era
proprio questa lusinga di eternità a rendere preziosa un’opera di
artigianato e a darle vita era proprio quella angosciante porzione di
tempo che vi veniva rinchiusa. Sembrava che la materia prima di una
seggiola o di un vomere non fosse tanto il legno od il ferro, ma il
tempo; e che la fatica del fabbro o del carpentiere, del sarto o del
calzolaio fosse quello di addomesticare i giorni comprimendoli nella
materia e crearsi per un istinto di conservazione riserve di tempo negli
otri delle cose prodotti dalle sue mani. Il tempo allora era
imprigionato nella materia come l’anima nel corpo, ruggiva dentro un
oggetto e gli dava movenze di vita se non proprio l’accento della
parola. Le cose nascevano perciò lentamente e con i tratti di una
fisionomia irripetibile. Come un figlio, prima un atto d’amore,
dolcissimo e breve, poi nove mesi.
Oggi purtroppo qui da noi di botteghe artigiane ne sono rimaste
veramente poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di
consumo: non si genera più, o meglio si concepisce solo l’archetipo, ma
senza passione e con molto calcolo. L’archetipo poi, questo sordido
ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante rapidità, squallidi
sosia, con l’unico desiderio che campino poco. Ed eccoli lì, allineati,
questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve, belli, ma
senz’anima, perfetti, ma senza identità, lucidi, ma indistinti. Non
parlano perché non sono frutto di amore, non vibrano, perché nelle loro
vene non ci sono più i fremiti del tempo prigioniero.
Si, Giuseppe! È proprio questa anemia di tempo che rende gelide le nostre opere.
Ecco, attraverso l’uscio socchiuso, scorgo di là Maria intenta a
ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tutto tessuto d’un pezzo
da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù, ma non per quando
nascerà, per quando sarà grande: gliela prepara fin d’ora, prima già che
lui nasca.
Io non me ne intendo, e perciò non so se gli arabeschi che
disegna con l’ago siano fatti a punto erba o a punto ombra. Forse sono
fatti a punto a croce.
Una cosa, però, intuisco: che quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l’eterno, si sentirà le
spalle amorosamente protette dal fragile tempo di sua Madre.
Povera Maria. A suo figlio, vorrebbe dargliela tutta intera la
sua vita. Ma non può. Allora gliene regala una porzione, fin da adesso,
racchiusa nello scrigno di quella tunica.
Forse un giorno, proprio per questo, sulla vetta del Golgota, gli uomini della Croce non vorranno lacerarla.
Oggi da noi, anche i ricami vengono fatti in serie.
C’è una ditta, la quale ha inventato una macchina che fa i punti perfetti, e non soltanto quelli!
E se tu dopo aver comprato in un negozio della città di san
Francesco, un guanciale disegnato o a “punto assisi”, la notte pensi di
poggiare il capo su un frammento di tempo regalatoti da un’anonima
ricamatrice, bella come Santa Chiara, ti illudi amaramente.
Questo è forse il sacrilegio più grave della nostra civiltà. La distruzione del tempo, e col tempo
dell’amore, della fantasia, della bellezza, dell’arte.......
(continua)
Oggi ricordiamo anche tutti i papà...
al papà dei miei figli, ai figli che son diventati padre , al nostro Papà celeste, al Santo Padre Francesco, ai papà che soffrono per la lontananza dai loro figli, ai papà che sono volati in cielo......
AUGURI!